Per una nuova marcia del coraggio, barbara e futurista
«Vigliacchi! Vigliacchi! vigliacchi!»
scriveva Boccioni nel suo Pittura
scultura futuriste (1914), urlando il proprio disprezzo per le abitudini
servili degli italiani del tempo. Era profondamente indignato (qualcosa di
molto lontano dall’indignazione modaiola di oggi), perché in Italia ci si
attardava «nella coltivazione delle muffe del passato» e si aveva «per
vigliaccheria, l'odio del nuovo».
Abbiamo bisogno
solamente di coraggio. L’Italia manca di coraggio. Gl’Italiani non sono
abbastanza coraggiosi (intendo: spiritualmente). É necessaria una cura di
coraggio. La storia, la cultura, l’ingegno: bellissime cose (per i vigliacchi)
ma non valgono assolutamente il coraggio.
Queste parole sono invece di Giovanni
Papini, altro campione del libero pensiero, altro eretico a tutto tondo. La
sostanza non cambia. Papini volle scrivere questa sua Marcia del coraggio (1913) per sostenere l’assoluta necessità di
essere ancora più audaci di quanto lo si fosse in quel momento (ed erano gli
anni futuristi di «Lacerba», rimasti insuperati
per temerità). Il coraggio alla base e prima di ogni tentativo di pensiero e azione.
Noi stessi che cantiamo
il coraggio, che invochiamo il coraggio, che predichiamo il coraggio, che
abbiamo fatto del coraggio il nocciolo della nostra arte, il motivo del nostro
pensiero, la regola della nostra vita — noi stessi che abbiamo più coraggio
degli altri, più coraggio di tutti e che ci vergognamo dell’altrui
vigliaccheria come di un nostro disonore — noi stessi che abbiamo tentato di
sradicare i rispetti umani, i rispetti artistici, i rispetti ragionevoli e
altre religiosità e venerazioni e devozioni pubbliche e generali noi stessi non
siamo abbastanza coraggiosi.
Ecco, forse dovremmo iniziare a
chiederci perché occorra andare indietro di un secolo intero per ritrovare
dell’autentico coraggio. Il coraggio di scrivere e dire ogni giorno quello che
scrivevano e dicevano i vari Boccioni, Marinetti, Papini, Pratella, etc.
È inutile cincischiare: ancora
oggi chi ha davvero a cuore le sorti dell’umanità (la propria umanità e
l’Umanità in toto) deve avere prima di tutto coraggio. Inutile affermare altri
magnifici ideali, inutile prospettare ulteriori visioni del mondo, se prima non
ci armeremo di autentico coraggio. Solo il coraggio potrà condurci alla svolta
di cui abbiamo bisogno.
Partiamo pure dalla
considerazione che viviamo un periodo assai cupo della storia del genere umano
(ma abbiamo mai goduto di un periodo davvero sereno?), in cui siamo ormai
asserviti ai meccanismi perversi avviati dalla modernità e impaludati
nell’apatia dell’habitus postmoderno. Probabilmente siamo in condizioni
peggiori rispetto a quelle di un secolo fa (quando la modernità sembrava
promettere meno catene e più libertà). Ora, se desideriamo uscire dalla gabbia
moderna e dalla melma postmoderna (mai mix fu più deleterio), dovremo procedere
con un’audacia smisurata, lasciandoci per una volta guidare anche dagli impulsi
vitali più irriducibili. Bisognerà nuovamente avere il coraggio di
essere presi per stronzi e per matti, per esaltati e per pagliacci. Il coraggio
di essere un po’ barbari e un po’ selvaggi. Il coraggio di sputare su tutti gli
idoli e gli altari consacrati dall’idiozia di massa. La massa fa paura solo a
chi non ha cuore (e coraggio). Quell’ammasso indistinto di corpi-cervelli che caratterizza
la contemporaneità passatista e presentista (la massa, appunto) è ovunque ci
sia vigliaccheria e manchi il coraggio. I ministri trentenni (o giù di lì) che
parlano come pre-adolescenti primi della classe; e i parlamentari quasi centenari
sempre adorati per il loro naturalissimo moderatissimo rincoglionimento. I
giornalisti di stampa e tv che ci presentano la realtà in cui viviamo con
almeno un decennio di ritardo; e i docenti universitari che, per doverosa
serietà scientifica e per distinguersi dai giornalisti, di decenni di ritardo
preferiscono averne almeno tre o quattro. Gli artisti colti che riempiono
gallerie di minchiate colossali (in grado però di stimolare l’altrettanto
colossale minchioneria dei critici d’arte); e gli artisti incolti che producono
le stesse minchiate, ma le espongono nel circoletto alternativo orgogliosamente
addobbato con le foto del mito Che Guevara. I ragazzotti di città che si
annoiano tracannando immondi bicchieri d’acqua sporca (che si vende con il nome
di “mojito”); e i ragazzotti di campagna che si fanno 20 chilometri per andare
in città e bere gli stessi immondi bicchieri. E poi tutte le ricche celebrità che
fanno generosa beneficienza, e tutti i poveri anonimi fessi che ammirano i
ricchi famosi che fanno generosa beneficienza. Di tutta quest’anodina massa di
corpi-cervelli (e di molto altro) si deve far beffe il nostro coraggio. Non dobbiamo
aver paura di risultare antipatici, molesti, presuntuosi, superbi, arroganti,
incompresi. Ce ne dobbiamo spavaldamente fottere del senso comune. Dobbiamo
liberarci dalle troppe catene (materiali morali ideologiche) che ci hanno messo
e ci siamo messi addosso. Senza
il coraggio di far piazza pulita del tanfo mortifero che ci circonda, non
avremo mai la possibilità di costruire nulla che sia realmente vivo.
Per questo motivo, prima di ogni altra analisi, prima di ogni onesto proclama, prima di ogni buon proposito
NON DOBBIAMO AVER PAURA DI DIRE
Basta con il continuo richiamo
alla pazienza, alla saggezza, alla prudenza.
Basta con gli appelli alla
responsabilità, alla moderatezza e al quieto vivere.
Non abbiamo più bisogno di
speculazioni certosine, di analisi cervellotiche, di sofismi variamente elaborati.
Non abbiamo più bisogno di volti
seri e facce compunte.
Non ci servono professori. Non ci
servono critici.
Non ci servono specialisti. Non
ci servono professionisti.
Non abbiamo bisogno di lavorare duramente
per sentirci vivi. E non abbiamo bisogno dello svago imbecille per riprenderci
dal duro lavoro.
Non abbiamo bisogno di un medico
ogni tre quarti d’ora e di un avvocato ogni quindici minuti.
Non abbiamo bisogno di qualcuno
che ci dica cosa fare e non fare ogni trentacinque secondi.
Facciamola finita con i cavilli
delle leggi scritte. E pure con i richiami alla Magnifica Legalità e alla Intoccabile
Costituzione.
Basta con i vigili e le guardie.
Basta con i giudici.
E poi basta con le scuole, le
officine, le caserme, le prigioni, gli ospedali.
Basta con gli esami, i concorsi,
le qualifiche, i titoli, i premi.
Basta con le banche e con le
assicurazioni. Basta con il grigiore impiegatizio.
Basta con tutto il miserevole
corredo istituzional-burocratico che abbiamo creato in secoli e secoli di civilissima
condivisissima auto-repressione.
Antonio Saccoccio
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