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mercoledì, agosto 27, 2014

Per una nuova marcia del coraggio, barbara e futurista

Per una nuova marcia del coraggio, barbara e futurista


«Vigliacchi! Vigliacchi! vigliacchi!» scriveva Boccioni nel suo Pittura scultura futuriste (1914), urlando il proprio disprezzo per le abitudini servili degli italiani del tempo. Era profondamente indignato (qualcosa di molto lontano dall’indignazione modaiola di oggi), perché in Italia ci si attardava «nella coltivazione delle muffe del passato» e si aveva «per vigliaccheria, l'odio del nuovo».

Abbiamo bisogno solamente di coraggio. L’Italia manca di coraggio. Gl’Italiani non sono abbastanza coraggiosi (intendo: spiritualmente). É necessaria una cura di coraggio. La storia, la cultura, l’ingegno: bellissime cose (per i vigliacchi) ma non valgono assolutamente il coraggio.

Queste parole sono invece di Giovanni Papini, altro campione del libero pensiero, altro eretico a tutto tondo. La sostanza non cambia. Papini volle scrivere questa sua Marcia del coraggio (1913) per sostenere l’assoluta necessità di essere ancora più audaci di quanto lo si fosse in quel momento (ed erano gli anni futuristi di «Lacerba», rimasti insuperati per temerità). Il coraggio alla base e prima di ogni tentativo di pensiero e azione.

Noi stessi che cantiamo il coraggio, che invochiamo il coraggio, che predichiamo il coraggio, che abbiamo fatto del coraggio il nocciolo della nostra arte, il motivo del nostro pensiero, la regola della nostra vita — noi stessi che abbiamo più coraggio degli altri, più coraggio di tutti e che ci vergognamo dell’altrui vigliaccheria come di un nostro disonore — noi stessi che abbiamo tentato di sradicare i rispetti umani, i rispetti artistici, i rispetti ragionevoli e altre religiosità e venerazioni e devozioni pubbliche e generali noi stessi non siamo abbastanza coraggiosi.

Ecco, forse dovremmo iniziare a chiederci perché occorra andare indietro di un secolo intero per ritrovare dell’autentico coraggio. Il coraggio di scrivere e dire ogni giorno quello che scrivevano e dicevano i vari Boccioni, Marinetti, Papini, Pratella, etc.
È inutile cincischiare: ancora oggi chi ha davvero a cuore le sorti dell’umanità (la propria umanità e l’Umanità in toto) deve avere prima di tutto coraggio. Inutile affermare altri magnifici ideali, inutile prospettare ulteriori visioni del mondo, se prima non ci armeremo di autentico coraggio. Solo il coraggio potrà condurci alla svolta di cui abbiamo bisogno.
Partiamo pure dalla considerazione che viviamo un periodo assai cupo della storia del genere umano (ma abbiamo mai goduto di un periodo davvero sereno?), in cui siamo ormai asserviti ai meccanismi perversi avviati dalla modernità e impaludati nell’apatia dell’habitus postmoderno. Probabilmente siamo in condizioni peggiori rispetto a quelle di un secolo fa (quando la modernità sembrava promettere meno catene e più libertà). Ora, se desideriamo uscire dalla gabbia moderna e dalla melma postmoderna (mai mix fu più deleterio), dovremo procedere con un’audacia smisurata, lasciandoci per una volta guidare anche dagli impulsi vitali più irriducibili. Bisognerà nuovamente avere il coraggio di essere presi per stronzi e per matti, per esaltati e per pagliacci. Il coraggio di essere un po’ barbari e un po’ selvaggi. Il coraggio di sputare su tutti gli idoli e gli altari consacrati dall’idiozia di massa. La massa fa paura solo a chi non ha cuore (e coraggio). Quell’ammasso indistinto di corpi-cervelli che caratterizza la contemporaneità passatista e presentista (la massa, appunto) è ovunque ci sia vigliaccheria e manchi il coraggio. I ministri trentenni (o giù di lì) che parlano come pre-adolescenti primi della classe; e i parlamentari quasi centenari sempre adorati per il loro naturalissimo moderatissimo rincoglionimento. I giornalisti di stampa e tv che ci presentano la realtà in cui viviamo con almeno un decennio di ritardo; e i docenti universitari che, per doverosa serietà scientifica e per distinguersi dai giornalisti, di decenni di ritardo preferiscono averne almeno tre o quattro. Gli artisti colti che riempiono gallerie di minchiate colossali (in grado però di stimolare l’altrettanto colossale minchioneria dei critici d’arte); e gli artisti incolti che producono le stesse minchiate, ma le espongono nel circoletto alternativo orgogliosamente addobbato con le foto del mito Che Guevara. I ragazzotti di città che si annoiano tracannando immondi bicchieri d’acqua sporca (che si vende con il nome di “mojito”); e i ragazzotti di campagna che si fanno 20 chilometri per andare in città e bere gli stessi immondi bicchieri. E poi tutte le ricche celebrità che fanno generosa beneficienza, e tutti i poveri anonimi fessi che ammirano i ricchi famosi che fanno generosa beneficienza. Di tutta quest’anodina massa di corpi-cervelli (e di molto altro) si deve far beffe il nostro coraggio. Non dobbiamo aver paura di risultare antipatici, molesti, presuntuosi, superbi, arroganti, incompresi. Ce ne dobbiamo spavaldamente fottere del senso comune. Dobbiamo liberarci dalle troppe catene (materiali morali ideologiche) che ci hanno messo e ci siamo messi addosso. Senza il coraggio di far piazza pulita del tanfo mortifero che ci circonda, non avremo mai la possibilità di costruire nulla che sia realmente vivo.
Per questo motivo, prima di ogni altra analisi, prima di ogni onesto proclama, prima di ogni buon proposito

NON DOBBIAMO AVER PAURA DI DIRE

Basta con il continuo richiamo alla pazienza, alla saggezza, alla prudenza.
Basta con gli appelli alla responsabilità, alla moderatezza e al quieto vivere.
Non abbiamo più bisogno di speculazioni certosine, di analisi cervellotiche, di sofismi variamente elaborati.
Non abbiamo più bisogno di volti seri e facce compunte.
Non ci servono professori. Non ci servono critici.
Non ci servono specialisti. Non ci servono professionisti.
Non abbiamo bisogno di lavorare duramente per sentirci vivi. E non abbiamo bisogno dello svago imbecille per riprenderci dal duro lavoro.
Non abbiamo bisogno di un medico ogni tre quarti d’ora e di un avvocato ogni quindici minuti.
Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica cosa fare e non fare ogni trentacinque secondi.
Facciamola finita con i cavilli delle leggi scritte. E pure con i richiami alla Magnifica Legalità e alla Intoccabile Costituzione.
Basta con i vigili e le guardie. Basta con i giudici.
E poi basta con le scuole, le officine, le caserme, le prigioni, gli ospedali.
Basta con gli esami, i concorsi, le qualifiche, i titoli, i premi.
Basta con le banche e con le assicurazioni. Basta con il grigiore impiegatizio.
Basta con tutto il miserevole corredo istituzional-burocratico che abbiamo creato in secoli e secoli di civilissima condivisissima auto-repressione.


Antonio Saccoccio

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