LIBERI DALLA FORMA

IL PRIMO BLOG NET-FUTURISTA

lunedì, novembre 28, 2005

Ad futurum su RadioAlzoZero

Oggi alle 21.00 parte su RadioAlzoZero, la prima web-radio italiana, la mia trasmissione "Ad Futurum".
Proverò a riscoprire le radici della cultura occidentale, gettando sempre uno sguardo al nostro avvenire.
Ogni settimana verrà trattato un tema, un autore, un movimento del nostro passato. Oggi la puntata di presentazione sarà dedicata proprio al rapporto tra la cultura del passato e quella del futuro.
http://www.radioalzozero.net/
Antonio Saccoccio

martedì, novembre 22, 2005

Un Manifesto per l'educazione

Per difenderci dal relativismo assoluto, dal nichilismo, dalla noia, dalle ansie e dalla violenza, ecco la risposta di alcuni intellettuali italiani. Per una volta si va nel verso giusto. Queste sono le vere novità in un mondo totalmente disorientato.
Ogni uomo che senta dentro di sé la passione e l’amore per la vita dovrebbe avere il compito di trasmettere agli altri questa passione e questo amore. Come? Ricordandosi della nostra tradizione culturale, innanzitutto.
Riporto qui di seguito il Manifesto, evidenziandone i punti maggiormente significativi.

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APPELLO
Se ci fosse una educazione del popolo tutti starebbero meglio

L’Italia è attraversata da una grande emergenza. Non è innanzitutto quella politica e neppure quella economica - a cui tutti, dalla destra alla sinistra, legano la possibilità di “ripresa” del Paese -, ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l’economia. Si chiama “educazione”. Riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l’educazione si costruisce la persona, e quindi la società. Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro.
Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli.
Per anni dai nuovi pulpiti - scuole e università, giornali e televisioni - si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere.
È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta.
È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere.
Ma la loro noia è figlia della nostra, la loro incertezza è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell’educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa. Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose. Perché l’educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. È la strada sintetizzata in un libro cruciale, nato dall’intelligenza e dall’esperienza educativa di don Luigi Giussani: Il rischio educativo. Tutti parlano di capitale umano e di educazione, ci sembra fondamentale farlo a partire da una risposta concreta, praticata, possibile, viva. Non è solo una questione di scuola o di addetti ai lavori: lanciamo un appello a tutti, a chiunque abbia a cuore il bene del nostro popolo.
Ne va del nostro futuro.
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Per aderire all'appello andate alla home page del sito di Comunione e Liberazione:
Tra i primi firmatari:
Allam Magdi, vice direttore Corriere della Sera
Avati Pupi, regista
Boffo Dino, direttore Avvenire
De Bortoli Ferruccio, direttore Il Sole 24ore
Ferrara Giuliano, direttore Il Foglio
Muccioli Andrea, responsabile comunità San Patrignano
Polito Antonio, direttore Il Riformista
Risè Claudio, psicoanalista
Rondoni Davide, poeta
Rossella Carlo, direttore TG5 Mediaset
Vittadini Giorgio, presidente Fondazione per la Sussidiarietà

sabato, novembre 19, 2005

La morte? Comunicazione infinita…

Vivere la morte drammaticamente come un distacco irreparabile dai propri cari è un grave errore. Io sentirò sempre vive le persone che avrò avuto davvero vicine nell’arco della mia esistenza, anche quando queste moriranno. E sentirò di dovermi ricongiungere a questi cari, andando a visitare il loro sepolcro. E visitando quel sepolcro io sentirò di comunicare loro lo stesso amore che manifestavo quando erano in vita. Forse tutti dovremmo avere questa convinzione.
Sapere che un giorno avrò qualcuno che visiterà la mia tomba con amore è una cosa che mi emoziona profondamente. In fondo cosa ci può essere di più straordinario? Una persona che si reca in un cimitero a rendere vivo, anche dopo la morte, un profondo legame affettivo.
Io immagino di vedere dal cielo quelle persone care che mi portano il loro saluto. E vorrei che tutti sapessero che quel giorno io dall’alto li starò guardando… sì, starò guardando proprio loro. E vorrei che tutti immaginassero un mio splendido sorriso, grato per la visita e felice per l’amore che si rinnova. Perché non sarò morto. Sarò vivo nei loro ricordi, nei loro pensieri. E prima o poi ci rincontreremo… con tutti...
Antonio

giovedì, novembre 17, 2005

La morte proibita

L'interesse prioritario sembra oggi quello di evitare il turbamento e l'emozione causati dalla morte. Tutto questo perchè nella nostra vita è ormai ammessa soltanto la felicità, e qualsiasi cosa giunga a turbarla non è accettata. Dobbiamo sempre essere (o meglio, sembrare) felici. E si giunge così ad eliminare dalla nostra vita ogni cosa ricordi la morte.
Questo nostro atteggiamento nei confronti della morte è stato superbamente analizzato dallo storico Philippe Ariès nel suo testo Storia della morte in Occidente. Riporto un passo particolarmente significativo di quest'opera.
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"Geoffrey Gorer ha chiaramente dimostrato come la morte sia divenuta tabù e come, nel XX secolo, abbia sostituito il sesso quale principale divieto. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii al capezzale del moribondo. Oggi sono iniziati fin dalla più tenera età alla fisiologia dell'amore, ma , quando non vedono più il nonno e se ne stupiscono, gli si dice che riposa in un bel giardino in mezzo ai fiori: The Pornografy of Death – titolo di un articolo di Gorer ricco di anticipazioni, pubblicato nel 1955. Più la società allentava le costrizioni vittoriane nei riguardi del sesso, più respingeva le cose della morte. E, nello stesso momento del divieto, appare la trasgressione: nella letteratura moderna riappare la mescolanza di erotismo e di morte - ricercata dal XVI al XVIII secolo -, e nella vita quotidiana, la morte violenta.
[…]
Il divieto della morte subentra di colpo ad un lunghissimo periodo di parecchi secoli, in cui la morte era uno spettacolo pubblico al quale nessuno avrebbe avuto l'idea di sottrarsi, e che anzi era addirittura ricercato. Che rapido capovolgimento!
Una causalità immediata salta subito all'occhio: la necessità di essere felici, il dovere morale e l'obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza e di noia, dandosi l'aria di essere sempre felici, anche se si tocca il fondo della desolazione. Mostrando qualche segno di tristezza, si pecca contro la felicità, la si rimette in discussione, e allora la società rischia di perdere la sua ragion d'essere"
P. Ariès, Storia della morte in Occidente
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Resta da chiedersi se questo sia il migliore atteggiamento da tenere nei confronti della morte. A mio avviso questa è l'ennesima manifestazione della crisi dell'uomo contemporaneo. Grave crisi di identità. Neghiamo la morte per non privarci di quella stupida e finta maschera di felicità che abbiamo tutti i giorni. La neghiamo scioccamente, per poi abbandonarci alla disperazione quando infine giunge (perchè giunge alla fine!).
Quanto migliore una naturale presa di coscienza dell'inevitabilità della morte e quindi una sana e dignitosa accettazione del lutto...
Antonio Saccoccio

venerdì, novembre 11, 2005

Sulla morte

Non credo davvero che si debba aver timore della morte. Morire è come nascere. E’ una delle cose più naturali che c’è a questo mondo. Possibile che ancora non abbiamo fatto i conti con un qualcosa che accompagna da sempre l’uomo?

Il grande Seneca, uno degli uomini più saggi di tutti i tempi, in diversi suoi scritti parla della morte e del rapporto che l’uomo ha con la morte.
In Epistulae ad Lucilium, 99 Seneca affronta un tema delicato: il momento in cui un uomo perde un proprio caro. Il nostro filosofo prende in esame le diverse maniere di comportarsi dopo un lutto. Tanta è la profondità delle sue affermazioni che mi sembra doveroso riportarvi alcuni dei passi tra i più convincenti e illuminanti.

“Quod damnorum omnium maximum est, si amicum perdidisses, danda opera erat ut magis gauderes quod habueras quam maereres quod amiseras”
Se tu avessi perduto un amico, la qual cosa è la perdita più grande, avresti dovuto più gioire per averlo avuto (come amico) che non affliggerti per averlo perduto.

Seneca ci sta dicendo: “Siete matti? Vi lamentate perché è morto un amico? Pensate piuttosto alla fortuna che avete avuto ad averlo, visto che l’amicizia è una delle cose più rare e belle che vi possono capitare.”
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“Magna pars ex iis quos amavimus, licet ipsos casus abstulerit, apud nos manet”
La parte più importante di coloro che abbiamo amato, anche se la sorte ce li ha tolti, rimane con noi”

Questo è un avvertimento per tutti. Non disperiamoci, perché l’amore per una persona non cessa nel momento della sua morte. Rimane per sempre con noi. L’amore è eterno e la morte non ce lo può togliere in alcun modo.
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“Omnis eadem condicio devinxit: cui nasci contigit mori restat”
Una medesima condizione ci ha avvinto: a chi è toccato in sorte di nascere, non resta che morire.

“Nihil cuiquam nisi mors certum est”
Nessuno ha altra certezza se non la morte.

Quindi - aggiungo io - lamentarsi della morte, significa lamentarsi della vita stessa.

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Nella lettera 101 Seneca aggiunge un altro argomento di grande forza.

“Excutienda vitae cupido est discendumque nihil interesse quando patiaris quod quandoque patiendum est; quam bene vivas referre, non quam diu; saepe autem in hoc esse bene, ne diu.”
Bisogna scuotere da noi la brama di vivere e imparare che non ha importanza in quale momento si debba subire ciò che una volta o l’altra si deve subire; importa quanto tu viva nel bene, non quanto a lungo; spesso in verità in questo consiste il bene, non nel vivere a lungo.

Come dare torto a Seneca? Perché questo insensato e morboso attaccamento alla vita? Il materialismo ci ha davvero tolto ogni minima capacità di ragionare.

Antonio Saccoccio

martedì, novembre 01, 2005

L'ha detto... Lev Tolstoj

"Gli uomini che non comprendono la vita non amano parlare della morte"
Lev Tolstoj