LIBERI DALLA FORMA

IL PRIMO BLOG NET-FUTURISTA

lunedì, dicembre 25, 2006

Futurismo: le nefandezze della critica militante

Nefandezze della critica militante


"Le avanguardie artistiche del Novecento" di Mario De Micheli


E' incredibile quanti pregiudizi abbia dovuto subire il movimento futurista in tanti decenni di studi, analisi e critica.
Non si comprende bene se dietro certi giudizi ci sia la mediocrità dello studioso o evidente malafede. Io propendo per la seconda ipotesi, che rivela implacabilmente la povertà dell'uomo, ma compromette anche la serietà e l'affidabilità dello studioso.
Certo è che non rendersi conto dell'importanza assolutamente fondamentale del futurismo per la storia dell'arte, della società e del costume italiano del Novecento significa operare in maniera dilettantesca.

Il testo di cui oggi voglio parlarvi è "Le avanguardie artistiche del Novecento" di Mario De Micheli.
Nel testo citato lo studioso si propone di chiarire la genesi e le principali caratteristiche dei movimenti d'avanguardia della prima metà del Novecento (le cosiddette avanguardie storiche).
Dopo tre capitoli introduttivi, dedica un capitolo ad ogni movimento. Già il titolo dei singoli capitoli fa sorridere (o indignare, dipende dagli stati d'animo).
4 La protesta dell'espressionismo
5 La negazione dadaista
6 Sogno e realtà nel surrealismo
7 La lezione cubista
8 Contraddizioni del futurismo
9 La regola dell'astrattismo
Ora davvero qui forse non è neppure il caso di perdere troppo tempo. L'autore ha scelto per ogni movimento un termine che potesse caratterizzarlo. Solo per il futurismo ha usato un termine negativo. Lo scopo propagandistico si può dire raggiunto. Ma uno studioso serio può mai prendere sul serio tanta faziosità? Io personalmente mi sono limitato a sorridere divertito.
L'indignazione è subentrata leggendo il capitoletto dedicato al futurismo. Un concentrato di superficialità, vaghezza, qualunquismo e retorica antifascista della peggior specie.
Ma ci siamo abituati. Ne abbiamo letti a dozzine di libri del genere.

Vi riporto qualche brano, giusto per darvi l'idea delle posizioni di De Micheli.
"Purtroppo l'anarchismo, il sorelismo e il socialismo non erano le uniche componenti ideologiche del futurismo. Altre ve n'erano, che finirono con l'avere il sopravvento, avviando il movimento verso un esito negativo."
De Micheli prima si rammarica ("purtroppo") che il futurismo non fosse soltanto socialista e anarchico, poi arriva a sostenere che il movimento ebbe un esito negativo. Sì, miei cari lettori, il futurismo condizionò, nonostante questi benpensanti, gran parte dell'arte e del costume del Novecento (con una spinta non ancora esaurita), dalla pittura alla musica, per non parlare della poesia, dell'architettura, della tipografia, della moda, del teatro e del design. Ma questo non basta al nostro critico: per lui il futurismo ebbe un esito negativo.
Sorridiamo, non è il caso di prendersela. Era il 1966 quando scriveva queste cose (ma la sua nota per la ventesima edizione porta la data del 1988, quindi non ci sono troppe scusanti).
Leggete ora più in basso.
"Per fortuna altri intellettuali vedevano e comprendevano, e avrebbero ricavato, più tardi, da quella lezione, gli insegnamenti necessari: intellettuali diciamo come Gobetti o come Gramsci."
Qui ormai De Micheli dimentica che sta scrivendo di arte. Parla da uomo di parte, emettendo giudizi evidentemente di parte ("per fortuna").
Ancora, dopo aver parlato dei rapporti tra futurismo e fascismo.
"Mentre altrove le avanguardie si erano sviluppate nell'opposizione, in Italia il futurismo si era dunque identificato con l'aspetto più nero della reazione sino a restarne soffocato. Il furore nazionalista gli aveva tolto ogni giudizio".
Eccolo che esce allo scoperto, finalmente. Ecco l'altro peccato capitale del futurismo: essersi confuso col fascismo.
De Micheli giudica i movimenti artistici seguendo criteri politici. Il futurismo fu nazionalista e si confuse con il fascismo. Per questo ebbe esito negativo e perse ogni giudizio.
Ma il meglio di sè il nostro critico lo dà nella seconda parte del capitolo. Sì, perchè si trova di fronte al problema Boccioni. Ora noi sappiamo che di fronte alla figura di Boccioni tutti i denigratori del futurismo vanno in crisi. L'evidenza dei risultati artistici di Umberto Boccioni è talmente schiacchiante che De Micheli è costretto a parlarne in toni positivi. Ma come? Un futurista che è un grande artista? Dopo tutto quello che ha detto sul futurismo sarebbe una contraddizione. E allora se la cava sostenendo che Boccioni fu un caso isolato, un parto accidentale del futurismo.
"L'ottimismo di Boccioni non era qualcosa di ottusamente euforico o d'incosciente come l'ottimismo degli altri futuristi".
La realtà è un'altra. Noi sappiamo benissimo che Boccioni fu il più futurista di tutti i futuristi. Nelle sue opere c'è un'applicazione fedelissima dei principali elementi del movimento: dinamismo e simultaneità su tutti.
Insomma, De Micheli appare totalmente fuori strada.
Va detto che non manca un suo passo particolarmente efficace, quando individua l'errore del futurismo nell'aver idolatrato la macchina, non comprendendo i danni che l'uomo avrebbe potuto subire da questo atteggiamento.
"Lo sbaglio profondo del futurismo fu di non considerare la sorte dell'uomo nell'ingranaggio di quest'era meccanica. Solo Boccioni e inizialmente Carrà si resero conto del problema. Ma la direzione generale del movimento fu un'altra, fu quella di identificare i termini del progresso tecnico con quelli del progresso umano, quella di considerare quindi l'uomo e la tecnica sullo stesso piano, tutto a scapito dell'uomo".
E' inutile sottolineare che questo è anche uno dei punti di rinnovamento del Neofuturismo rispetto al futurismo del Novecento. Non per niente parliamo da tempo di un NeoFuturismo che dovrà essere affiancato necessariamente da un NeoUmanesimo.
Ma torniamo al nostro testo e torniamo proprio a Boccioni.
Perchè De Micheli non ha ancora esaurito il suo campionario di svarioni. Anzi, fate attenzione perchè quello che ora leggerete ha dell'incredibile. Preparatevi. Non sto inventando nulla. De Micheli non lascia nulla al caso, tutta la sua argomentazione è subdolamente ma perfettamente congegnata.
Insomma, il nostro critico è arrivato ad un punto fermo: Boccioni è l'unico grande artista futurista. Ma c'è anche qui una spiegazione. Quale? Non immaginate? Leggete e non meravigliatevi. Io non mi meraviglio più di nulla.
"In un libro di ricordi Libero Altomare, raccontando di un suo incontro milanese con Boccioni a quell'epoca, afferma tra l'altro: "Boccioni simpatizzava col di lui programma, pur serbando in politica le proprie convinzioni marxiste".
Eccoci qua. I futuristi non valgono nulla perchè sono nazionalisti e fascisti. Boccioni soltanto è un verso artista. Perchè Boccioni... è marxista!
Io credo che non ci sia molto da aggiungere.
Anzi, concludiamo con le parole di De Micheli, perchè una farsa riuscita ha sempre una conclusione all'altezza. Ecco come termina il capitolo.
"Questo fatto, pure nel giusto rifiuto critico del futurismo in tutte le sue manifestazioni d'isterismo nazionalistico e di fragorosa superficialità, deve essere sottolineato. Tra l'altro sappiamo che non solo il futurismo degenerò... La nuova avanguardia ormai, in Italia, dopo la prima guerra mondiale, sarebbe nata solo verso il '30, dagli intellettuali e dagli artisti dell'opposizione antifascista."
Benissimo, l'illustre De Micheli ci ha chiarito per bene le idee. Gli artisti e gli avanguardisti sono marxisti e antifascisti. Gli altri non esistono. Anzi no. Servono solo per far risaltare ancor di più la nobiltà e la grandezza dei primi.
De Micheli, che finezza di analisi!
Mai letto nulla di tanto profondo in 32 anni.
Per curiosità vado a cercare notizie sull'autore e scopro che si tratta del solito critico cresciuto col mito dell'antifascismo, per di più collaboratore dell'Unità.
Ma a questo anche siamo abituati.
ad futurum
Antonio S.

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giovedì, dicembre 21, 2006

Un consiglio di Prezzolini, autodidatta non pentito

Consigli di un autodidatta agli studenti, agli ignari, ai semplici, ai sinceri verso se stessi (se ce ne sono e hanno il coraggio di manifestarlo)
  1. Non vi fidate mai interamente di nessun consiglio, di nessuna autorità, di nessuna storia estetica, di nessuna antologia e nemmeno di nessuna storia letteraria, compresa la mia. Ma questa vi servirà a farvene una vostra, mentre le altre cercano di precludervi da una vostra opinione. Vi dovete fare una vostra estetica, una vostra antologia. Prendete delle schede, fate degli appunti di ciò che vi piace o dispiace, e che più tardi potrete confrontare con quello su cui avete riflettuto, e cambiare correggendo, migliorando o peggiorando, non importa purchè nasca, o vi paia che nasca dal vostro intimo convincimento.

Giuseppe Prezzolini, Storia tascabile della letteratura italiana

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lunedì, dicembre 18, 2006

Ortega y Gasset: l'arte tra passato e futuro

Josè Ortega y Gasset è stato senza dubbio uno dei più grandi filosofi del XX secolo. Fu autore di opere straordinarie, tra cui ricordiamo soprattutto La rebelíon de las masas del 1930, in cui descrive la condizione dell'uomo-massa in modo superbo anticipando analisi sociologiche ancor oggi di grande attualità. Ma Ortega scrisse anche un saggio sulla rivoluzione artistica del Novecento, La deshumanización del arte, che contiene passi brillanti, accanto ad altri a mio avviso meno convincenti. Ma le vette raggiunte da Ortega sono decisamente uniche.
Tralascio il discorso generale (che mi riservo di trattare in altra occasione) e vi riporto il passo in cui, per motivare la rivoluzione artistica in atto, descrive il bisogno dell'uomo di rinnovarsi continuamente.
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"Conta poco la vita se non batte dentro di essa un'ansia irrefrenabile di ampliare le sue frontiere. Si vive nella proporzione con cui si anela di vivere di più. Ogni ostinazione nel mantenerci dentro il nostro orizzonte abituale significa debolezza, decadenza delle energie vitali. L'orizzonte è una linea biologica, un organo vivo del nostro essere; finchè godiamo di plenitudine, l'orizzonte avanza, si dilata, ondeggia elastico quasi all'unisono con il nostro respiro. Viceversa, quando l'orizzonte s'immobilizza, vuol dire che si è atrofizzato e che noi siamo entrati nella vecchiaia."
Josè Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell'arte (1925)
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Ortega y Gasset fu un pensatore acutissimo. E ovviamente si rese conto dell'importanza per l'uomo di cambiare continuamente. La disumanizzazione dell'arte contiene pagine dure nei confronti dell'arte del XIX secolo. L'istinto porta quindi il filosofo spagnolo a schierarsi senza indugio a favore delle nuove correnti artistiche.
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"Quando un'arte porta con sè molti secoli di ininterrotta evoluzione, senza gravi fratture nè crisi storiche che la interrompano, la tradizione si va facendo densa e opprimente e gravita progressivamente sull'ispirazione attuale. O per dirla diversamente: fra l'artista che sorge e il mondo si frappone ogni volta una maggiore massa di modi stilistici tradizionali che intercettano la comunione diretta e originale del primo con l'altro. Sicchè l'una delle due: o la tradizione finisce col respingere ogni energia originale - come avvenne in Egitto, a Bisanzio, nell'Oriente - oppure l'azione del passato sul presente deve cambiare di direzione e deve sorgere un lungo periodo in cui la nuova arte si vada affrancando poco per volta dalla vecchia eredità che la soffoca. Questa è la sorte dell'anima europea in cui predomina un istinto futurista al di sopra dell'irrimediabile tradizionalismo e passatismo orientali."
Josè Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell'arte (1925)
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Eccolo il nostro Ortega pienamente futurista.
A quasi un secolo di distanza sentiamo queste parole vivissime. Una forma di oppressione ancora maggiore grava su tutti noi nell'epoca dei mezzi di comunicazione di massa. E si sente il bisogno nuovamente di rompere gli schemi, di dare un altro colpo al passatismo.
Antonio S.

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mercoledì, dicembre 13, 2006

L'Italia e l'egemonia culturale comunista: l'invidia negata

E' evidente che una delle cause principali della povertà del nostro paese è costituita dalla capillare diffusione del sentimento distruttivo dell'invidia.
L'invidia è l'unico vizio capitale in grado di demolire fin dalle fondamenta il tessuto sociale di una società. D'altra parte la sua pericolosità risiede nel fatto che è l'unico vizio per sua stessa natura inconfessabile. L'invidioso confessando il suo vizio ammetterebbe la propria inferiorità e la propria impotenza. Per questo di invidia non si parla.
Tuttavia neppure questo basta a spiegare il fatto che in Italia la parola "invidia" sia un vero e proprio tabù.
In realtà la rimozione del dibattito sull'invidia è dovuta evidentemente all'egemonia marxista che annichilisce il nostro paese da più di sessant'anni.
E' nota quale strada abbiano intrapreso i comunisti in Italia dal secondo dopoguerra, quella della negazione. L'egemonia culturale del comunismo italiano post-bellico ha le idee fin troppo chiare: occupare tutti i posti di potere in ambito culturale e di controllo del consenso, diffondere in ogni modo e con ogni mezzo il verbo comunista, e - soprattutto - rimuovere tutti gli argomenti spinosi, quelli in grado di demolire rapidamente le teorie di Marx e affini.
Ed è soprattutto quest'ultimo punto che a noi interessa. In sessant'anni in Italia non si è riusciti mai a parlare seriamente del fenomeno dell'invidia. La gente non doveva confrontarsi con un sentimento tanto ignobile. Il popolo italiano ha imparato ad invidiare sorridendo, ad odiare con compiacimento. Ha imparato a vedere in un uomo bravo e fortunato un nemico da distruggere, non un fratello da amare e un esempio da emulare.
E il paese si è sfasciato. I conflitti sono cresciuti a dismisura.
Hanno fomentato l'invidia e non hanno permesso a nessuno di denunciare la barbarie di questo sentimento.
Emblematico il caso del testo "L'invidia e la società" dell'austriaco Helmut Schoeck.
Questo volume, pubblicato nel 1971 con il titolo "Der Neid und die Gesellschaft" costituisce ancora oggi il più completo studio realizzato in materia di invidia.
Pubblicato nel 1974 da Rusconi, è in poco tempo scomparso dal circuito della distribuzione, diventando praticamente introvabile se non in poche biblioteche. Erano gli anni Settanta, parlare di invidia era una follia!
Solo nel 2006 il testo è tornato disponibile ad opera della casa editrice Liberilibri di Macerata, un editore che ha come obiettivo il recupero di testi di orientamento liberale.
Schoeck è fin troppo morbido con il comunismo. Pur individuando chiaramente il nesso comunismo-invidia, non si spinge mai ad una condanna completa. Ciò è dovuto al fatto che non considera l'invidia come un vizio, ma solo come un sentimento distruttivo. La mia impostazione è differente. L'invidia è (insieme all'avarizia) il peggiore vizio dell'uomo, sicuramente il più pericoloso. Va quindi giudicata e condannata senza mezzi termini, condannando nello stesso tempo tutte le ideologie che scatenano e fomentano l'invidia nel tessuto sociale.
Questo però è significativo. Il testo di Schoeck, pur non essendo anti-comunista, è stato volutamente oscurato e insabbiato. Solo per il fatto di trattare il tema dell'invidia.
Oggi è possibile rileggere il testo. Contiene passi interessanti. Io sono ancora più drastico e posso dire di stare un passo avanti rispetto a Schoeck.
Ma già è tanto poter rileggere oggi il testo dello studioso austriaco e riprendere un dibattito su un tema che potrebbe portare un miglioramento decisivo nella società italiana.
L'augurio è che evapori al più presto questa nube tossica che grava da troppo tempo sulla cultura del nostro paese. E che gli italiani possano essere finalmente liberi di scegliersi le proprie letture.
Antonio S.

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mercoledì, dicembre 06, 2006

Papini: ritratto di Marinetti

Ecco una pagina a mio avviso straordinaria. Giovanni Papini, il grande stroncatore, descrive Filippo Tommaso Marinetti, "caffeina d'Europa". Papini non è certo tenero con FTM, ma deve tuttavia riconoscerne l'enorme vitalità e gli effetti positivi che ebbe nel sonnolento panorama italiano di quel tempo.
Ne esce fuori un ritratto vibrante, di cui vi trascrivo le parti più interessanti.
Il testo è tratto da "Passato remoto", uno degli scritti meno noti di Papini.
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"Conobbi F.T. Marinetti alla fine del 1913. A quel tempo aveva già oltrepassato il "mezzo del cammin di nostra vita" ma era nel colmo del suo orgiasmo e sperperava una vitalità girovaga e vibratoria fuori dal comune. Era già quasi calvo ma si dava ancora delle arie di razziatore ubiquitario di donne di ogni razza e qualità. Vestiva con milanese eleganza, si moveva con elastica e scattosa energia, parlava con rovesci e grandinate di ben scolpite e perentorie parole. Aveva una grande resistenza fisica: dopo viaggi lunghi e spesso insonni correva a un albergo, faceva un bagno caldissimo, prendeva una tazza di caffè e poi balzava sulle pedane o sulle ribalte, fresco come una rosa, pronto a schermaglie e battaglie, che duravano ore ed ore.
[...]
Marinetti veramente non era cretino nè idiota. Aveva una certa intelligenza istintiva e intuitiva sebbene tutt'altro che profonda, e anche una certa cultura, racimolata alla peggio nei collegi dei gesuiti e nei caffè di Parigi e di Milano. Si scopriva poi, conoscendolo un po' davvicino, che, nonostante le sue pose di rivoluzionario à tout poil e di cinico avventante, era, in fondo, un buon diavolo, capace di amicizie fratellevoli e di slanci generosi.
[...]
Non parlerò delle sue teorie, spesso ingenue e confuse, che in realtà aveva raccattato qua e là, soprattutto nei cenacoli e nelle riviste francesi, e che nell'insieme costituivano una specie di dannunzianismo accomodato ai miti più grossolani della civiltà meccanica. Ma chi ricorda l'atmosfera afosa e smaniosa degli anni che prepararono la prima guerra mondiale, dovrà riconoscere che l'irruzione del Futurismo, prima che si tramutasse in marinettismo, ebbe qualche effetto salutare: Marinetti, non foss'altro, obbligò gran parte della sonnolenta e anchilosata borghesia italiana ad appassionarsi anche a nuovi problemi di arte e di letteratura, e a entrare violentemente in contatto con le ricerche e le scoperte del nuovo spirito europeo. Fu come una di quelle brutali ventate furiose d'autunno che sollevano sudiciume e polverone ma che al tempo stesso portano un po' di refrigerio nella città semimorta e anche qualche buon soffio salso dell'alto mare."
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Come avete visto, Papini non risparmia critiche a Marinetti. Posso dire che il suo giudizio corrisponde tutto sommato al mio. Intelligenza intuitiva quella di FTM, non certo profonda. E fu proprio questa mancanza di profondità a costituire il limite suo e di quasi tutti i futuristi. Ma la vitalità, l'intuito, l'energia e la volontà di rinnovare lo stanco panorama socio-culturale italiano sono meriti che non possono assolutamente essere tolti a Marinetti. Papini ci riferisce anche che Marinetti era tutt'altro che disumano, anzi aveva dei sinceri slanci di generosità e di affetto nei confronti degli amici e dei familiari.
Papini, uomo dotato di una notevolissima sensibilità, colse perfettamente tutti questi elementi.
Poi sono arrivati i barbari e i tanti pseudo-intellettuali italiani che hanno tentato di far passare Marinetti per un buffone e un idiota.
Ma noi crediamo a queste parole di Papini (che idiota certo non era), non a quelle dei barbari.
Antonio S.

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